Personaggi
Autopresentazione
I FANTASMI DELLA SCIENZA
“Talvolta l’adulterio non è che una forma disperata della fedeltà”
Marguerite Yourcenar, da Clitennestra o del crimine
Una scrittrice a me cara, Giuliana Morandini, nella prefazione ai miei monologhi pubblicati nel ’96 da Ricordi ha saputo indicare la ragione segreta – segreta forse a me stesso – che mi porta a scrivere di teatro. «Ugo Ronfani – notava la scrittrice, troppo amica per essere severa nel giudizio come avrebbe dovuto – sembra suggerire che all’inizio del teatro ci sia la meraviglia del bambino intento all’oscillazione fort und da del pendolo; e con il bambino ci stupiamo ogni volta di come la verità consista in un gioco antinomico e illusivo». Non si poteva dire meglio che il teatro che m’interessa, proprio per un suo potere ipnotico, è quello delle idee: come sa chi – una volta perdonati i “tradimenti” del critico che sconfina nella scrittura creativa – ha avuto la pazienza di leggere i miei lavori per la scena. La convenzione teatrale ha per me, in effetti, il potere suggestivo e antico di incarnare nei personaggi, oltreché i sentimenti, anche le idee: non già per confondere lo spettatore nel labirinto dei simboli, ma perché le idee sono state, sono e saranno i fili con cui il teatro, come il Burattinaio che ispirò a Goethe il Faust, muove le figure delle sue rappresentazioni. In questo mio ultimo “tradimento” l’idea è stata quella di trattare il tema dell’amore fedele – assolutamente, disperatamente fedele – fino all’invenzione (per astrazione, s’intende) di un “doppio” dell’oggetto amato, del tutto a lui simile. Uno scienziato, un biologo avventuratosi nei territori ancora incerti della biogenetica, e che teme, perché ormai prossimo alla linea d’ombra della maturità, di non saper meritare e condividere l’amore di una giovane straniera – anzi portato a corrodere col dubbio questo amore nella sua natura più spontanea – concepisce la “folle idea” (il teatro, dopo Pirandello, sa inscenare “lucide follie”) di rendere in qualche modo “eterna” la sua passione dando vita a una copia perfetta della donna amata, di cui intuisce l’abbandono imminente. È il tema, attuale, della clonazione. È il principio – nota un eccentrico collega del biologo – dell’“Harem monogamico”: l’infedeltà proprio per essere incondizionatamente fedele, e se in ciò prevalga “l’amore dell’amore” sull’amore dell’altro, come diceva Denis De Rougemont, è difficile a dirsi. Forse, il limite di un esperimento del genere era già stato indicato da La Rochefoucauld: «La violenza che ci facciamo per essere fedeli a coloro che amiamo non vale meglio dell’infedeltà». Forse la clonazione di Justine da parte del professor Newhouse (altro privilegio del teatro: dare credibilità esistenziale alla fantascienza) conduce non al possesso esclusivo di un amore ma, al contrario, alla solitudine che invano si rifugia nel “principio dell’Harem”. La morale di questa storia neogotica, ambientata in un castello della Toscana popolato dai fantasmi del tempo e della scienza, è che non può esserci passione amorosa senza una condivisione degli amanti nella libertà. Ma qui è tempo che concluda, anche per non sottrarre al lettore l’eventuale – da me sperata – curiosità dell’epilogo. Ronconi dice che un futuro possibile per la drammaturgia è nell’eventuale alleanza del teatro e della scienza. Per carità! Il mio traguardo non era così ambizioso: so di avere costruito soltanto un gioco delle ipotesi.
Ugo Ronfani