Personaggi
Autopresentazione
LA MORTE DI UN BAMBINO E LA CACCIA AGLI EBREI
Il 23 marzo 1475 – 15 del mese dì Nissan, primo giorno di Pesah e Capodanno per gli ebrei – era il Giovedì Santo dei cristiani. Ora avvenne che Andrea conciapelli, abitante a Trento in via del Fossato, passò tutto quel giorno a lavorare, con un certo Cipriano da Bormio, in una vigna fuori le mura. A casa aveva lasciato la moglie Maria e un figlio di ventotto mesi, di nome Simone. Nel pomeriggio, poi, Maria dovette a sua volta allontanarsi da casa per urgenti necessità e anche per una visitina in chiesa. A chi lasciasse il bambino in custodia non si sa. Si sa invece che, a un dato momento, il piccolo era solo e che, quando più tardi tornò a casa, la madre non lo trovò. Chiese ai vicini. Nessuno lo aveva visto. Preoccupata, Maria si mise a cercarlo e a chiamarlo su e giù per la via del Fossato, ma inutilmente. Arrivò il padre dalla campagna e pure lui, con l’aiuto di amici e conoscenti, andò alla ricerca del figlioletto. Tutti lo cercarono attentamente fino a notte fonda, senza però alcun risultato. Il giorno dopo, molto presto, Andrea riprese le ricerche. Guardò dappertutto, frugò e rifrugò in ogni angolo, in ogni buco, in ogni anfratto, ispezionò minuziosamente il fosso lungo la via, nel tratto che scorreva a cielo aperto e in quello che, attraverso un condotto sotterraneo, passava sotto la casa di un calzolaio e poi, prima di sfociare in Adige. nella cantina del banchiere ebreo Samuele di Bonaventura, originario di Norimberga, ma abitante a Trento nella via del Mercato Vecchio. Niente, del bambino nessuna traccia. A questo punto Andrea, disperato, non sapendo più che cosa fare, andò a denunciare il fatto al principe-vescovo della città Johannes Hinderbach, umanista e poeta, nato a Rauschenberg, in Assia nel 1418, il quale, immediatamente ordinò al podestà Giovanni de Salis di Brescia, di rendere noto alla cittadinanza l’accaduto e di imporre a chi avesse visto Simone o sapesse qualcosa di lui o lo tenesse con se, di notificarlo senza indugio alcuno, sotto pena eccetera, eccetera. Verso mezzogiorno, prima ancora che il bando fosse divulgato il podestà, pare dietro sollecitazione dello stesso Andrea, suggestionato da voci strane a proposito di ebrei che, nel periodo pasquale, rapivano e uccidevano bambini cristiani, mandò i suoi sbirri a perquisire da cima a fondo la casa di Samuele. Tempo perso. Non si trovò nulla. Ma ecco che, la sera di Pasqua, mentre quasi tutti gli ebrei sono raccolti nella sinagoga che si trova nella casa di Samuele, per le loro funzioni, Bonaventura cuoco scende nella cantina per prendere acqua e, nella gora, scorge qualcosa che gli sembra il corpo di un bambino. Impressionato scappa. Più tardi scendono in cantina Tobia medico e suo cugino Joaf e accertano che il qualcosa intravisto da Bonaventura è effettivamente il corpo di un bambino. Joaf entra nella gora e lo recupera. È gonfio, pieno di lividi e di ferite. Malgrado che intanto si sia fatto notte, Tobia corre subito al castello del Buonconsiglio, dimora del principe-vescovo, per informare del ritrovamento. Quella notte stessa Tobia, Samuele e Angelo di Salomone, anche lui banchiere, vengono arrestati e rinchiusi nelle carceri del castello. Il giorno successivo li seguono altri ebrei e, fra questi, Brunetta, moglie di Samuele. A carico degli arrestati e con una urgenza e una fretta, a dire poco sorprendenti, venne istruito e iniziato un processo, al termine del quale, riconosciuti colpevoli di avere ucciso il piccolo Simone allo scopo di cavargli il sangue per la celebrazione della loro Pasqua e in odio e spregio della Passione del Signore e Salvatore Gesù, nove di essi furono condannati e messi a morte per mezzo della ruota e del rogo. Tutti avevano ammesso la loro colpa, il processo si era svolto scrupolosamente secondo le “norme del diritto, degli statuti e degli ordinamenti della città di Trento” quindi il magnifico podestà che l’aveva condotto poteva sentirsi soddisfatto del proprio lavoro e in pace con la propria coscienza. Eppure voci anche autorevoli si levarono da ogni parte a protestare contro la falsità dell’accusa, i metodi adottati dal giudice per estorcere le confessioni agli imputati, a insinuare che ogni cosa era stata architettata e portata avanti unicamente per poter spogliare i più ricchi dei loro averi. Furono chiamati in causa Sigismondo, duca d’Austria e conte del Tirolo, dal quale il Principato di Trento dipendeva e la Santa Sede che, fra l’altro, vietava categoricamente di far processi per “omicidio rituale”. Papa Sisto IV mandò allora un suo legato, il vescovo di Ventimiglia, fra Giovanni Battista dei Giudici, dell’Ordine dei Predicatori perché accertasse la verità dei fatti in merito alla morte del piccolo Simone, controllasse la regolarità del processo, esaminasse la consistenza dei molti miracoli che si vantavano. Giunto a Trento dopo un viaggio durante il quale non gli erano mancati motivi di sospettare che non a tutti il suo arrivo era gradito, fra Giovanni Battista, intenzionato e deciso ad assolvere sino in fondo il suo mandato, si trovò subito a cozzare contro un muro di reticenze, di ostilità, di paure, di aperte e velate minacce, dietro il quale non tardò a scoprire che si celava proprio chi, per disposto papale, avrebbe dovuto collaborare con lui: il principe-vescovo della città. E, via via, sia pure tra mille difficoltà, che la sua inchiesta procedeva, la figura di questo uomo della Chiesa gli andava assumendo contorni sempre più ambigui, il suo ruolo e la sua responsabilità nella faccenda gli si precisavano in misura inquietante. Alla fine non aveva più dubbi: quelle voci che si erano levate a protestare e insinuare e che avevano mosso la Santa Sede non erano soltanto voci! La mostruosa macchinazione montata ad arte per spogliare gli ebrei dei loro averi gli appariva in tutto il suo terribile squallore. Ciò non diminuÌ, anzi accrebbe la sua determinazione e la sua diligenza in favore della verità e della giustizia anche per impedire che, all’infamia già consumata, altre se ne aggiungessero. L’assassinio “legale” dei nove, più quello “empio” di Brunetta non era stato, infatti, che il primo atto (altri ebrei erano in carcere, in attesa di giudizio) della tragica farsa, malcelata da una fin troppo evidente ostentazione di legalità, di scrupolo procedurale e sostenuta da una massiccia campagna di suggestione alimentata con la pubblicità dei miracoli di Simone, oltre che con la macabra e impietosa esposizione del suo corpicino putrescente all’orrore popolare. Purtroppo fra Giovanni Battista dovette costatare che se i suoi propositi si erano rafforzati non si era certo allentata la sistematica opposizione che gli si faceva (gli si impediva, con pretesti di ogni genere, di esaminare i verbali del processo, si intimidivano e dissuadevano a presentarglisi i testimoni che convocava, gli si negava l’accesso alle prigioni dove erano tenuti gli ebrei, si lasciavano cadere nel vuoto le sue disposizioni) sicche a un certo punto decise di lasciare e lasciò Trento per trasferirsi a Rovereto, in territorio del Serenissimo Ducato di Venezia da dove pensava gli sarebbe stato più facile condurre la sua indagine. Non ottenne gran che. Riuscì solo a raccogliere nuovi elementi, a riprova di quanto già gli era noto. Non riuscì, invece, a evitare che altri innocenti fossero sacrificati, che sofferenze si aggiungessero a sofferenze, torture a torture, morte a morte, che si completasse, insomma, l’impressionante catena di soprusi, di cinismo e d’ignominia. Il buon vescovo di Ventimiglia, comunque, non si arrese mai. Fece il suo dovere fino in fondo, ossia tentò di farIo, perche pure quando si trattò di denunciare il responsabile e i complici di un delitto così abietto, non trovò credito, peggio, l’intrigo e un opportunismo vergognoso e ingiustificato soffocarono la sua voce. Ma la sua voce non si è persa. Ci sono voluti cinquecento anni, è vero, però si è fatta di nuovo sentire in quella di un altro domenicano, il padre Willehad Paul Eckert di Colonia, il quale, nel 1964, al termine di uno studio definitivo sugli atti del processo, concludeva: “gli ebrei di Trento erano innocenti! Vennero falsamente accusati di omicidio rituale, processati, condannati e giustiziati, solo per poter mettere le mani sulle loro ricchezze!”. Sembra ben poca cosa, in confronto ai tormenti patiti da innocenti e alle colpe rimaste impunite, eppure, a ben pensare, è proprio nell’avere stabilito l’innocenza e precisato il crimine che la verità, qui come sempre e più che mai, rivela e afferma la sua altissima validità etica e riparatrice. Questa è la ricostruzione dell’azione penale contro Samuele, Tobia, Angelo e gli altri sei (più Brunetta) sulla traccia dell’indagine condotta dal vescovo di Ventimiglia e del “Codex Tridentinum” (Atti del Processo). Tutta la materia è trattata con taglio volutamente cinematografico, con ricorso al flash-back e a diversi altri accorgimenti ed effetti per renderne lo sviluppo il più possibile aderente alla moderna sensibilità. Per ragioni di fedeltà storica il dialogo della parte giudiziaria è riportato direttamente dal “Codex” e per motivi di sintesi e di chiarezza narrativa, il capitolo torture, che in realtà fu scritto in tempi diversi, è qui condensato in un unico momento (scena tredicesima) con una appendice (scena sedicesima). Per gli stessi motivi la varietà (alquanto modesta invero) degli argomenti portati dal giudice e le risposte date dai vari imputati è resa dall’esame di uno solo di essi (Samuele) nella stesura del testo mi sono stati utili i libri Storia dell’antisemitismo, di Lèon Poliakov, vol. 1° (La Nuova Italia – Firenze, 1974) e L ‘arpa di David di Elena Tessadri (Campironi -Milano, 1974). Alla benevolenza della Tessadri devo anche la trascrizione della sentenza contro Vitale. Debbo riconoscenza: all’Arcivescovo di Trento, Alessandro Maria Gottardi, per avermi consentito l’accesso a documenti e reperti riservati; a Monsignor Iginio Rogger per la gentilissima, sapiente assistenza. In modo particolare ringrazio il prof. Alfonso M. Di Nola per le chiarissime, illuminanti analisi e il prof. Elio Toaff, Rabbino Capo di Roma, per il conforto del suo autorevole giudizio. Ancora una piccola cosa: l’estro per questo lavoro lo devo in gran parte alla premura affettuosa di mia moglie. Questa è pertanto la dedica: “A Giovanna, compagna amorosa”.
Giuseppe Santini
Scheda autore
GIUSEPPE SANTINI è nato a Camaiore l’8 settembre 1923. Nella vita ha vissuto molte esperienze di vario genere, compresa la guerra e ha esercitato diverse attività, l’ultima delle quali, che in definitiva lo caratterizza: la regia cinematografica e televisiva. Come regista si è formato alla scuola di uno dei padri del documentario italiano, il fiorentino Raffaello Pacini, e ha lavorato, dapprima (anni ’50) con la Documento Film, poi, dal 1967, con la Rai, nella quale – Centro di Produzione TV di Roma – ha fatto parte del ristrettissimo gruppo di registi cinetelevisivi “qualificati”. È autore di soggetti e sceneggiature (Andante Spianato, Vincenzino sull’albero ecc.); ha diretto riprese di opere musicali, teatrali e sceneggiate (Al dio delle zecche di Danilo Dolci, Musica alla Corte dei Gonzaga, L’Istruttoria di Peter Weiss, Il diario di Anna Frank , Il Teatro Liturgico Medioevale ecc.); ha realizzato numerosi documentari e inchieste di carattere storico, sociale e scientifico per tutte le Reti e Strutture e per quasi tutte le Rubriche dell’Ente Televisivo di Stato (Sant’ Anna di Stazzema, I Medici in Toscana, La Risiera di San Saba, Fossoli, Le vie del marmo, I vecchi in campagna, Il mare, ecc.). Ultimamente, ha messo un po’ d’ordine nel caos di idee, progetti e appunti raccolti nel corso di quarant’anni e uno dei primi risultati è appunto In Christi Nomine, amen.