Personaggi
Primo Stefano Palma Madre
Autopresentazione
Incantati tra un secolo e l’altro Ho scritto e messo in scena Incantati nel 1994. Avevo in mente il calcio della mia infanzia, era quella vita “incantata” che volevo ritrovare: quello spicchio di prato verde tra il cemento, il piacere del corpo in corsa, il sudore, il sole, il cielo azzurro, la gioia del gioco e dell’amicizia. Ma poi, lavorando con le Albe, e inventandoci una storia ambientata nei campetti di calcio della periferia romagnola, veniva fuori come l’infanzia in quel fine secolo era spesso stravolta: nelle ossessioni del successo esibite dai genitori, nel “tatticismo” para-professionistico di certi allenatori applicato a chi ancora andava alle scuole elementari, nell’attenzione morbosa al denaro. Un mondo non più incantato, ma messo all’incanto: in vendita. E mentre noi lavoravamo alla “parabola dei fratelli calciatori”, sulle macerie del sistema dei partiti avanzava il “nuovo” di Arcore: calcio e televisioni, mito e arroganza della ricchezza. Faceva venire i brividi, quella “New Fantasy”, così vecchia e stantìa, così orribile, anche se riverniciata dal sorrisetto dell’imbonitore, nel suo disprezzo per l’umano e le sue ferite. E allora scattò come un cortocircuito tra il sogno dell’infanzia e l’Italia che credeva di uscire dalla palude della corruzione politica: me lo fece notare un amico critico, Nico Garrone, quando mi disse al debutto: «Ma il posto di lavoro promesso alla madre di Luca da Bellettini è l’equivalente del milione di posti di lavoro di Berlusconi!». Non ci avevo pensato, nello scrivere Incantati. O forse sì, ci pensiamo anche quando non ci pensiamo. Le ombre delle cose fluiscono sulla scena anche quando noi non lo decidiamo: è soprattutto quando noi smettiamo di decidere, che comincia la poesia. La madre di Luca ci crede, a Bellettini: e gli italiani hanno creduto a Berlusconi, e ancora ci credono, anche se sono passati vent’anni, anche se le promesse non sono state mantenute. Anche se le menzogne ci hanno divorato, come belve feroci. «Non c’è mica speranza», dice Palma guardando il suo campetto ridotto a deserto. Pare di no. Per questo nel 2012 abbiamo pensato di riprendere Incantati in forma di “lettura scenica”: quella storia di sconfitte e di illusioni, di bambini rubati e di piccole truffe, ci riguarda ancora oggi. Strano destino, quello della mia scrittura con le Albe, della mia vita con le Albe: comporre storie malinconiche e disincantate, o tragiche come l’ultimo Pantani, in cui la Nazione italica che ci disgusta è ancora quella là, immutabile, segnata dal fascismo come “autobiografia” (Gobetti); e nello stesso tempo vagabondare furiosamente e senza requie in giro per la penisola, da Milano a Scampia a Lamezia Terme, a “giocare” il teatro con i bambini e gli adolescenti, con i tanti Luca che vogliono correre con noi sul campetto della non-scuola. Nero dell’orizzonte, azzurrità della speranza bambina. Marco Martinelli
Scheda autore
Nasce a Reggio Emilia il 14 agosto 1956. Nel 1977 sposa Ermanna Montanari e insieme cominciano il proprio apprendistato teatrale, Nel 1983 fonda a Ravenna, insieme a Ermanna Montanari, Luigi Dadina e Marcella Nonni, il Teatro delle Albe: opera nella compagnia in qualità di drammaturgo e regista. Le Albe sviluppano il proprio percorso intrecciando alla ricerca del “nuovo” la lezione della Tradizione teatrale: Martinelli scrive i testi ispirandosi agli antichi e al tempo presente, pensando le storie per gli attori, i quali diventano così veri e propri co-autori degli spettacoli. Tra i tanti premi ricevuti, si ricordano tre Premi Ubu (regia, drammaturgia, pedagogia della non-scuola), due Premi Hystrio (regia e percorso complessivo della compagnia), il premio alla regia ottenuto al Festival Mess di Sarajevo. Tra i lavori di Martinelli con le Albe ricordiamo I ventidue infortuni di Mor Arlecchino, rielaborazione goldoniana che ha avuto molta risonanza in Italia e in Europa, tradotta in diverse lingue, centrata sulla singolare figura di un Arlecchino africano, Rumore di acque, struggente oratorio per i dispersi nel Mediterraneo, tradotto e messo in scena in Francia e negli Stati Uniti, e il recente Pantani, un “rito della memoria” per il campione di ciclismo morto nel 2004 e insieme un affondo nei “pantani” della nostra fragile democrazia. Dal 1991 è direttore artistico di Ravenna Teatro, “Teatro Stabile di Innovazione